25/10/07

Vizi Capitali / "AVARIZIA" di Umberto Galimberti

Il denaro come fine / "Così il denaro se la gode al posto di chi ce l'ha..."

L'avarizia è il più stupido dei vizi capitali perché gode di una possibilità, o se si preferisce di un potere, che non si realizza mai. Il denaro accumulato dall'avaro, infatti, ha in sé il potere di acquistare tutte le cose, ma questo potere non deve essere esercitato, perché altrimenti non si ha più il denaro e quindi il potere ad esso connesso. Questa contraddizione così evidente è dovuta al fatto che l'avaro capovolge il rapporto mezzo-fine, e invece di considerare il denaro un "mezzo" per il raggiungimento di quei "fini" che sono l'acquisizione di beni e la soddisfazione dei bisogni, considera il denaro un fine, per il possesso del quale, si deve sacrificare l'acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni e dei desideri. Il desiderio dell'avaro non va mai al di là del denaro, perché agli occhi dell'avaro il denaro non è un mezzo per qualcos'altro, ma un fine in sé, anzi la forma pura del potere che il denaro possiede alla sola condizione di non essere speso. Per l'avaro, che gode del valore definitivo e per lui assolutamente soddisfacente del potere espresso dal denaro, tutti gli altri beni si trovano alla periferia dell'esistenza, e da ognuno di essi parte un raggio diretto che porta unicamente al suo centro: il denaro, che tutti li può acquistare, ma insieme non li può acquistare, se non al prezzo di perdere il potere che il denaro porta racchiuso in sé. Il primo a cogliere a questo capovolgimento "del mezzo" in "fine" che porta all'assolutizzazione del valore del denaro è stato Marx che, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, commentando alcune pagine di Shakespeare e di Goethe, di cui era grande lettore, scrive: "Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua repulsività, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono. Il denaro, inoltre, mi toglie la pena di essere disonesto, e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è più intelligente delle persone intelligenti? Io, che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario? E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che mi unisce alla società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli, il vero cemento, la forza galvano-chimica della società?". Così ragiona l'avaro (e secondo Marx anche il capitalista) per il quale l'avere è il fondamento del suo essere, la garanzia della sua identità: "Io sono ciò che ho". Per lui la proprietà privata (dal latino "privare" che significa "portar via agli altri") non è finalizzata all'uso, ma al possesso. E siccome l'avaro non può usare ciò che possiede se non perdendolo e quindi perdendo la sua stessa identità, consegnata per intero al possesso del denaro, l'avaro è condannato a una vita ascetica che Marx descrive come: "Rinuncia a se stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi eccetera, tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l'economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza, e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l'arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto questo; può tutto comprare: esso è il vero e proprio potere. Così tutte le passioni e tutte le attività devono ridursi all'avidità di denaro". Quando il denaro diventa il fine ultimo, tutti i beni che non sono di natura economica come l'intelligenza, la cultura, l'arte, la forza, la bellezza, l'amore, per l'avaro cessano di essere valori in sé, perché lo diventano limitatamente alla loro convertibilità in denaro che, a questo punto, si presenta agli occhi dell'avaro come la forma astratta di tutti i piaceri che tuttavia non vengono goduti. Il denaro, infatti, come mezzo assoluto, rivolge lo sguardo a illimitate possibilità di godimento, e nello stesso tempo, come mezzo inutilizzato, non sfiora neppure il godimento. Siamo soliti chiamare "avari" quelle persone che non gettano via nulla, che utilizzano due volte un fiammifero, che scrivono sul retro delle pagine utilizzate, che non buttano mai via uno spago, che cercano ogni ago perduto, che consumano le medicine in scadenza anche se non ne hanno bisogno, che si rovinano lo stomaco piuttosto che lasciare il pranzo a metà. Ebbene costoro non sono "avari" perché non pensano al valore in denaro degli oggetti che non sprecano, ma proprio al loro valore "materiale", che non è affatto in proporzione al loro valore in denaro. Costoro non sono "avari", ma "parsimoniosi", perché gli avari non attribuiscono alcun valore alle "cose in se stesse", ma solo a ciò che esse "rappresentano in denaro".

Nessun commento: